“Spostami la mano sinistra, avvicina il cuscino. Sento i piedi pesanti e mi bruciano i talloni, prova un po’ a muoverli per favore”. Mezzanotte e ancora non trovo pace, ho bisogno di assestarmi per provare a riposare. Chi mi vive lo sa che sono un tormento e che la notte sarà lunga. Poi, quando riesco ad assopirmi, volo. Nel sogno il mio corpo volteggia nell’aria leggero, non ne sento il peso: plano e riprendo quota, ampi giri fluttuando nello spazio.
È trascorsa solo un’ora da quando sono a letto e già provo insofferenza. “Allarga le ginocchia. Grattami la fronte, ti prego”. Il corpo di cui sono prigioniera, lo stesso che non reagisce ai comandi, si prende beffa di me. Vorrei allungare il braccio, passarmi la mano tra i capelli, girami sull’altro fianco. Ma è da anni che ho rinunciato all’idea di farlo autonomamente e devo necessariamente chiedere aiuto.
Il “grattino”, però, fa crollare il castello. Le braccia si contraggono involontariamente, gli spasmi mi fanno stringere le ginocchia e scalcio a terra il cuscino che sorreggeva i piedi: tutto da rifare. Intanto sono le 2:00. “Spostami i capelli, muovi il lenzuolo”. “Ti prego, sento un capello sul fianco sinistro”. Il “corpo morto”, quello che non serve più a nulla, è ipersensibile. Sento ogni piega degli indumenti, ogni singolo capello, il prurito al naso e quello alla nuca; il caldo e il freddo, il peso della coperta e il fastidio della federa del cuscino sulle spalle. E poi le dita, che si chiudono quando vogliono. E stringono. Stringono talmente forte che le unghie si infilzano nel palmo della mano. Il dolore mi fa scendere una lacrima, ma non riesco ad asciugare quel rivolo caldo che mi solca lo zigomo e sento scivolare fin dentro l’orecchio.
La rabbia e il senso di impotenza non conciliano il sonno. Anzi, stimolano la pipì, la prima di una lunga serie. “Mi scappa…”. Se tutto va bene sono le 3:00. Chi tentava di dormire accanto a me si alza, regolarmente inciampa da qualche parte cercando la padella al buio, impreca silenziosamente e attende fino a quando la mia vescica è in pace. Si tratta solamente di rimettere al loro posto le mani, il bacino, le gambe e la testa. E soprattutto quei due capelli che ancora mi si parano davanti agli occhi e non riesco a soffiare via. Intanto si stringono le gambe, è un dolore che conosco bene, sono gli spasmi che si presentano ormai puntuali ogni notte. Le pasticche di mio-rilassante alleviano la rigidità muscolare, ma mi trasformano in ameba senza forza. È arrivato il momento per rifare le iniezioni di botulino a braccia e gambe, l’ho già scritto alla dottoressa.
Ogni tanto dimentico che la mia è una “primariamente progressiva”, mica una sclerosi qualunque. Lesioni C3-C4. È lì il cortocircuito, in quello che immagino come un groviglio di cavi spezzati. Un guasto alla centralina. Sento il respiro pesante. Dieci minuti di sonno, apnea e paura. Vorrei sprofondare tra le coperte, proteggermi, nascondermi. Ci provo con i denti ad allungare il lenzuolo, uno sforzo disumano e… stimolante. Pipì delle 4:00
Tra due ore si parte per una nuova destinazione, tanto vale alzarsi. Anzi, farsi alzare. Questa volta vado a Tenerife accompagnata da Alessia e Valerio, altri due nipoti che viaggiano con me consapevoli che non si tratta di una normale vacanza. Ho bisogno di non pensare alla malattia, so che quando sono in viaggio dimentico i dolori, mi scordo la disabilità. Cerco solo un po’ di tranquillità, la stessa che vorrei regalare a colui che mi permette di vivere standomi accanto 24 ore su 24. Ma ci sarà sempre qualcuno che dirà: “Beata te, ti invidio”. Ed è ancora notte.