3 dicembre, Disability Day. Mentre riflettevo mi sono detta: “Simona, quale occasione migliore per raccontare una storia diversa?”. Pensieri che mi accompagnano mentre mi trovo con i miei nipoti in viaggio, questa volta di nuovo a Miami. Un viaggio che ho voluto affrontare per mettermi nuovamente alla prova sfidando la malattia, la sclerosi multipla, con cui convivo da quasi un decennio. Un mostro che mi ha rubato il corpo, ma non la voglia di continuare a sognare. Un viaggio che ho voluto fortemente, pur consapevole dei limiti dovuti all’evolversi di una patologia neurologica progressiva inesorabile, ma allo stesso tempo desideravo regalare un po’ di tregua alla persona che si prende cura di me ogni giorno, 24 ore su 24, sette giorni su sette, da sei anni. Il mio tutto, colui che mi fa sentire una persona normale e… mi manca.
Tutto inizia sei anni fa, quando mi ero messa in testa di partire per un viaggio in India e, con l’aiuto di amici, ho avviato una raccolta fondi per affrontare l’avventura. Molti giornalisti allora hanno ripreso la notizia di una pazza che in sedia a rotelle avrebbe voluto arrivare ai piedi dell’Himalay. Tra loro, mi ha contattata anche Claudio. “Ti premetto che sono un ex detenuto-, mi ha detto titubante. Ma mi piacerebbe raccontare la tua storia per una rivista con cui collaboro”. “Chi hai ucciso?-, è stata la mia reazione divertita”. Alla fine sono stata io ad intervistare lui, incuriosita dalla sua storia. Poi sono partita per l’India, un viaggio senza meta in cui mi sono lasciata trasportare dagli eventi, dagli incontri e dagli stimoli che mi arrivavano dalle persone che mi seguivano a distanza. Con Claudio abbiamo continuato a sentirci, gli raccontavo le mie sensazioni, gli incontri, i luoghi che visitavo. Lui prendeva appunti e mi accompagnava virtualmente. Poi mi ha suggerito di aprire un blog per condividere le mie esperienze con altre persone incoraggiando a viaggiare chi, a causa della disabilità, teme di non potercela fare e rinuncia ai propri sogni. Così è nato il progetto “InViaggioconSimona”. Dopo cinque mesi di vagabondaggio in Asia sono tornata e l’ho trovato lì, ad aspettarmi, quando ho ripreso le cure all’ospedale San Raffaele a Milano. L’unica persona a cui ho consentito di accompagnarmi nel mio viaggio attraverso la malattia. Gli ho chiesto di essere con me quando ero frastornata e si trattava di decidere se affrontare una terapia sperimentale. E lui era lì, senza paura, e l’intervista continua da allora. L’unica persona a cui ho consentito di impicciarsi nella mia malattia. Quando si è trattato di decidere il da farsi di fronte all’ipotesi di sottopormi ad una terapia sperimentale mi sentivo spaesata, confusa, e l’ho voluto accanto a me. Mi dava sicurezza. Mi teneva la mano mentre ascoltavamo i medici che ci spiegavano i rischi connessi al trapianto di cellule staminali.
La nostra quotidianità è fatta di aiuto reciproco, lui mi permette di sentirmi viva, “normale”. Con lui mi sento sicura e, soprattutto, mi sento donna. Dice lui che fin dal nostro primo incontro all’ospedale ha sentito che non sarebbe stato l’ultimo. Che non si è accorto della mia carrozzina, preso dalla voglia di vivere il momento. Mi fa stare bene, una sensazione che auguro a chiunque si senta in difficoltà. Ci compensiamo con le nostre paure, lui sa quanto gli sono vicina quando la notte sprofonda negli incubi e piange pensando di essere di nuovo in carcere, poi si sveglia perché ho bisogno di lui per fare la pipì. Dice Claudio che io sono la sua salvezza. Dico io che lui è una persona speciale, e che insieme siamo una forza. Insieme abbiamo deciso di raccontarci e lo facciamo con studenti, insegnanti ed associazioni, convinti di poter dare qualcosa. Siamo “Quasi amici”, un po’ più che amici. Noi siamo due storie che diventano una Storia.