Ogni mattina all’alba, da secoli, migliaia di pellegrini compiono il loro cammino di discesa dei ghat di Varanasi, le scalinate che portano al fiume, per immergersi nelle sacre acque del Gange. Un sogno che è divenuto realtà. Tante volte, leggendo le pagine di Terzani, ho immaginato e sognato il momento in cui avrei potuto arrivare a Varanasi. L’ India che volevo è questa: carica di significati, di spiritualità e di emozioni. L’alba sul Gange è un’esperienza intensa, che le parole non riescono a descrivere. Varanasi è un pugno nello stomaco, ma bisogna superare il dolore iniziale ed affrontarla nuovamente.
Sono le 5. Siamo a bordo di una grande barca a remi, alla deriva sul Gange, mentre il sole si alza lentamente. Tutto così semplice? Assolutamente no. In particolar modo per me, che giro in carrozzina. Sarebbe stato impossibile salire in barca senza l’aiuto degli amici indiani che mi hanno letteralmente sollevata, non senza fatica, per farmi superare i gradini e imbarcarmi con la sedia a rotelle e il mio motorino. C’è la voglia di vivere questa esperienza, senza la paura di chiedere aiuto. C’è un backstage fatto di enormi difficoltà, ma anche di infinita pazienza e disponibilità.
Le rive pullulano di vita più di quanto pensassi possibile. Il rumore di Varanasi galleggia via come il tempo rallenta in un ritmo antico. Canti, meditazione, preghiere, bagni rituale, abluzioni, bagni e lavanderia. Ci sono persone magre, persone grasse, fiori e candele. C’è così tanto colore che i miei occhi smettono di lavorare e il mio cervello si spegne. Voglio vedere la vita che comincia in questa città che odora di morte, voglio vedere il sole che si eleva all’orizzonte sul fiume sacro e con i suoi raggi illumina la città mistica di Varanasi. La barca procede lentamente, allontanandosi dai ghat della città, e mano a mano che ci si sposta, l’unico suono che si sente è lo scrosciare dei remi sull’acqua.
Le barche a remi legate al molo incorniciano uomini e donne che compiono il rito delle abluzioni, per purificarsi nelle torbide acque. Donne, uomini, adulti, bambini e malati insieme nella sacralità del gesto. Qualcuno accende un piccolo lume che lascia scivolare sulla superficie unito a fiori di loto.
Rimango senza fiato, dall’emozione e non dagli odori: l’atmosfera mistica del fiume, avvolto ora da una luce rosata e tenue. Per un istante mi sento parte di un mondo di cui non so nulla, che non mi appartiene, lontano e incomprensibile. Contemplazione.
In lontananza si vedono i fumi neri dei corpi che bruciano: a Varanasi i rituali di cremazione non si fermano mai, è un rito eterno, che si ripete ininterrottamente 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, da secoli. E continuerà ancora nei secoli a venire. Anche Varanasì è una città eterna. A vederla da lontano sembra quasi un’apparizione, un miraggio, un sogno. Sembra che sia sempre stata lì, appoggiata con i suoi colori sulle sponde di un fiume che dall’alba dei tempi le dona la vita, la rigenera e che poi si riprende con se i corpi di chi ha terminato il suo percorso terreno, per condurli ad una nuova vita chissà dove. Varanasi è anche il luogo migliore in cui morire e farsi cremare, ragion per cui in prossimità delle rive del Gange si ammassano malati senza speranza e moribondi, in attesa di morire e conquistarsi l’accesso al paradiso.
Il suggestivo rito della cremazione, eseguito pubblicamente sulle sponde del Gange, è ricco di spiritualità: i corpi dei defunti vengono trasportati, avvolti da un lenzuolo, su una lettiga di bambù, deposti su pire funerarie, per essere bruciati in riva al Gange. Alla fine della cerimonia funebre, le ceneri vengono disperse nel fiume. Una morte ideale per tutti i fedeli che possono permettersi di morire qui, purché abbiano la disponibilità economica per pagare la legna sufficiente per la durata della cremazione e il lavoro delle persone addette al rito. Chi non ha soldi, deve accontentarsi di forni crematori elettrici assai più economici, anche se meno sacri e rituali. I corpi dei bambini, delle donne incinte, dei lebbrosi, dei sadhu e delle persone morte perché morse dai serpenti, secondo i precetti della religione, non possono esser cremati, e vengono semplicemente gettati nel fiume. Il rito della cremazione non è cosa semplice: deve essere usata la giusta quantità di legna, né poca né troppa, adatta a cremare completamente il corpo. I corpi vengono trasportati, senza troppi piagnistei, in un breve corteo su una lettiga di bambù, coperti solo da un velo. Arrivati al fiume vengono immersi per un attimo nelle acque sacre e poi poggiati sulla catasta di legno, pronti ad ardere. Infine le ceneri vengono gettate nel Gange. Non tutti hanno la possibilità economica di essere cremati in questa maniera, i meno abbienti ricorrono ai forni elettrici, decisamente più economici. La maniera migliore per assistere alle cremazioni è dalla barca.
Ogni vero indù dovrebbe, almeno una volta nella vita, compiere il pellegrinaggio a Varanasi. Si rivolgono verso il sole nascente e compiono, assorti nelle loro preghiere, una complessa serie di rituali hindu: gettano nel fiume ghirlande di fiori e piccole candele; prendono l’acqua facendola gocciolare attraverso le dita per farla ricongiungere con “La Grande Madre”, in offerta alle divinità e ai propri antenati; la bevono, alla faccia dei germi, dei batteri e dell’inquinamento dei nostri giorni; la raccolgono nelle mani per versarsela sul capo o all’interno di un contenitore di ottone che, terminata l’abluzione, viene portato al tempio; intonano sacri mantra e si immergono, per liberare il corpo dalla contaminazione dei peccati. Sul fiume i fedeli adagiano candele accese, simbolo dei loro sogni, sperando che la corrente li porterà lontano.